Il Pasolini di Ferrara

Il corpo martoriato riposa sul litorale di Ostia, spazio osceno e fatiscente, il sangue si rapprende e si indurisce tra quelle ossa rotte, quegli organi esplosi e fatti deflagrare dai colpi e dalla macchina che gli è passata sopra una, due, molteplici volte. Quel corpo è un monito, è un messaggio scritto sulla sabbia con carne ed ossa e sangue e quella testa sfasciata serve a ricordare ad una Nazione i pericoli verso i quali sta correndo.

Il regista Abel Ferrara giunge a Pasolini nel 2014 dopo altri due film estremamente importanti nella sua filmografia: 4:44 Last day on Earth del 2011 e Welcome to New York sempre del 2014. Insieme a Pasolini si va a costituire quella che idealmente posso tentare di definire una trilogia politica dell’autore, dove accanto a quella che è una costante della sua produzione autoriale, ovvero la ricerca di redenzione (basti pensare al cattivo tenente di Harvey Keitel nel capolavoro del 1992), si rende più esplicita anche la matrice politica delle opere del cineasta. Se in 4:44 la fine del mondo è conseguenze delle politiche socioeconomiche a cui tutti noi partecipiamo consapevolmente, in Welcome to New York tutto è incentrato sullo scandalo Strauss-Kahn e sul potere che i soldi esercitano sulle persone. Ovvio che anche l’ultimo suo film, parlando di Pasolini, non possa non trascinarsi un bagaglio politico pesante con tutte le implicazioni che la rappresentazione dell’omicidio dell’intellettuale richiamano.

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Sono le sei del mattino e qualcuno nota un ammasso sulla spiaggia, si pensa a dell’immondizia. In fondo, quella è una zona degradata, decadente, dove umanità varia si aggira disperata. Non siamo ancora nel mondo della crisi economica, ancora c’è una sorta di ottimismo anche se gli anni di Piombo sono lì, le bombe, le stragi, la violenza. Pasolini parla di un fascismo pericoloso, strisciante, che ha sconfitto il fascismo classico impersonato secondo lui da Mussolini prima e dalla DC dopo. Quel fascismo che ora teme è quello del mondo dei consumi che sta distruggendo tutte le tradizioni a lui care e che sta uniformando le persone, la cultura, la politica. Il litorale di Ostia è l’immagine di quello che si lascerà alle spalle quel mondo consumistico. Quell’ammasso indistinto diventa un cadavere, diventa IL cadavere. Pasolini. Pasolini è morto, qualcuno l’ha ammazzato.

Nel nuovo millennio, dopo l’abbandono dello storico collaboratore sceneggiatore di Ferrara, l’ultra cattolico Nicholas St. John (ma The bad lieutenant è farina del sacco di Ferrara e di Zoe Lund), l’opera del regista mostra alcuni sbandamenti, tra sprazzi di genio si allargano macchie di manierismo. I budget per le sue opere si fanno più risicati, i finanziamenti dall’America sempre più difficili da reperire e infatti per gli ultimi film i soldi giungono dalla Francia e dall’Italia. Il penultimo film, Welcome to New York non trova distribuzione nei cinema ed esce direttamente in DVD nonostante si tratti di un’opera eccezionale che insieme al contesto politico contiene una ode alla città di New York che soltanto uno come Ferrara potrebbe fare. In Francia il film non viene considerato per timori di ripercussioni sulla politica interna francese e infatti non viene nemmeno selezionato per Cannes 2014. Dopo questo mezzo fallimento, Ferrara decide di raccontare la morte di Pasolini da lui indicato tra i maggiori ispiratori della sua opera.

La scena del crimine è un caos, gente che gioca a pallone vicino al corpo morto, curiosi che osservano, calpestano, inquinano. I poliziotti scattano fotografie. In una vediamo il corpo di Pasolini piagato, sanguinante, spezzato. Due poliziotti inginocchiati accanto a lui. Uno ride.

Come appare ovvio, trattandosi Pasolini di personaggio estremamente scomodo, buono per essere ricordato in modo agiografico e astorico quaranta anni dopo la sua morte ma stando ben attenti a non toccare le zone d’ombra attorno e dentro di lui, i finanziamenti per il film Ferrara non li trova a Roma, ma a Parigi. Willem Dafoe è un ottimo Pasolini; il sodale di sempre del poeta, Ninetto Davoli, appare nella ricostruzione di quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo film, quello dell’addio al cinema da parte di Pasolini, il Porno Teo Kolossal. Tutto molto bello, tutto molto giusto.

La Fallaci urla, sono stati i fascisti, sono stati i fascisti. Arrestano Pelosi e inizierà il valzer dei decenni, è stato lui, non è stato lui, complotto, i fascisti, i comunisti, gli spari, la polizia e quel corpo morto resta lì, sulla spiaggia.

Il problema forse di questo film è che essendo necessariamente un’opera che richiede un forte sottotesto politico di partenza (tutto è politica, per dirla con Pasolini, e il sesso più di tutto) in realtà si concentra sull’uomo. Raccontando le ultime ventiquattro ore di vita di Pasolini, ci si focalizza sui fatti cruciali, tenendo in secondo piano tutto quello che aveva preceduto e causato quei fatti. Il Pasolini perseguitato dai politici, dalla magistratura, dai giornali, dalla società, il Pasolini tormentato che aveva speso milioni in avvocati e processi inutili, il Pasolini autore di opere sequestrate e dissequestrate, tutto questo non compare nel film. Abbiamo solo un uomo, un autore che torna in Italia dopo una visita in Francia, incontra familiari, amici e che la sera dopo aver abbordato un ragazzo viene brutalmente ucciso sul litorale di Ostia. Non si pongono domande, non si indaga più a fondo, non si racconta quanto di oscuro realmente c’era. Lo spirito dei tempi è lì, ma viene scalfito, non ferito. Restano le ricostruzioni filmiche delle ultime due opere incompiute dell’intellettuale italiano: PetrolioPorno Teo Kolossal, ma è troppo poco. Ed è un peccato.

Dacci oggi la nostra Apocalisse quotidiana (2/2)

Dicevamo di Abel Ferrara e della sua visione della fine del mondo, espressa nel 2011 con 4:44 – Last day on Earth e di come la strada prettamente psicanalitica e introspettiva percorsa da Lars von Trier, qui invece deflagri in un urlo che prima di tutto è politico e solo successivamente umanistico/umanitario. Certo, come in von Trier non assistiamo a scene di panico di massa, di distruzione e sommosse. Non siamo insomma, nei soliti canali dei blockbuster d’azione in cui abbiamo gli eroi che scampano ad eventi distruttivi immani, ma affrontiamo la tragedia imminente con gli occhi di una coppia di innamorati che vivono le loro ultime ore sul pianeta.

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La differenza con von Trier risiede però nello sguardo che questa coppia ha nei riguardi del mondo. In Melancholia infatti il nucleo famigliare è il centro di tutto e il mondo che finisce è un qualcosa di esterno che si ripercuote sull’interiorità di questo gruppo chiuso. Il mondo esterno non esiste se non per brevi accenni e tutto viene relegato in uno spazio delimitato in cui si aggirano i personaggi quasi fossero attori su un palco teatrale (esperimento già tentato dallo stesso von Trier con Dogville); in 4:44 invece, la coppia è sì rinchiusa nel proprio appartamento di New York, ma vive un rapporto continuo con quello che è l’esterno. I protagonisti hanno contatti con altre persone che hanno fatto parte della loro vita e possiamo così assistere ai loro costernati addii tramite Skype o alla fuga nella notte di Willem Dafoe che incontra i suoi vecchi compagni tossicodipendenti impegnati in un ultimo disperato sballo che non porterà a nulla. Lo stesso Willem Dafoe è un personaggio ossessionato dalle cause della fine del mondo, l’inquinamento dell’uomo che ha dissolto definitivamente lo strato d’ozono togliendo così ogni protezione dai raggi del sole che cuoceranno il pianeta, e noi attraverso i suoi occhi assistiamo ai filmati di politici e religiosi che nel corso degli anni ci avevano avvisati sui pericoli che stavamo correndo. Proprio in questo modo il politico, elemento mai così esplicitamente presente nei precedenti film di questa rassegna, viene scagliato in piena faccia dello spettatore.
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Dacci oggi la nostra Apocalisse quotidiana (1/2)

Qualcosa è successo nel campo della fantascienza che riflette a mio modo di vedere in modo alquanto pesante quello che è il mood della nostra società in questi ultimi anni dominati dalla crisi economica globale. Quello che è iniziato nel 2008 con il tracollo della Lehman Brothers e che sta proseguendo tutt’oggi ha catalizzato inevitabilmente tutti i pessimismi che la nostra già martoriata percezione della vita si portava appresso da tempo, utilizzando come mezzo di comunicazione principale il cinema.

Che il mondo di celluloide, e quello fantascientifico in primis, sia per eccellenza il filtro privilegiato attraverso cui analizzare il presente in cui stiamo vivendo non è ormai più argomento di discussione. Il cinema ha il potere di percepire il reale e rappresentarlo più o meno indirettamente tramite immagini e storie, influenzando e venendo influenzato a sua volta dalle mutazioni della società in cui si trova ancora. La rapidità stessa con cui il cinema riesce ad essere prodotto, e di conseguenza fruito, lo rende lo strumento per eccellenza per l’analisi socio-politica dei tempi moderni. Nell’immediato non sono mai mancati gli instant movie, film pensati e realizzati con lo scopo di raccontare eventi di cronaca o tendenze della società praticamente contemporanee. Basti pensare all’esplosione dei social network e al The social network di David Fincher, o al caso Wikileaks/Julian Assange prontamente trasposto da Bill Condon nel film The fifth estate. Ma aldilà di questa capacità di rappresentare l’immediato, il cinema permette di raccontare interi periodi storici semplicemente analizzando quella che è la deriva delle narrazioni che esso effettua e delle tendenze che prendono il sopravvento nel modo di porre queste stesse narrazioni.
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Only God (Refn) forgives

Prologo

Sì, è vero, di clip che scimmiottano la famosa scena de La Caduta è pieno l’Internet, tanto ormai da aver francamente sfrantecato le scatole (con buona pace di Giuseppe Genna e del suo condividibilissimo assunto di non trasformare Hitler in una macchietta). Però era carino da mettere, perchè rende bene la reazione che Only God forgives ha suscitato a Cannes: un coro di fischi e applausi, dove i primi sono stati più numerosi dei secondi. Altrettanto vero che la maggior parte delle persone si aspettavano da Winding Refn e Ryan Gosling un secondo Drive. Il problema è che Drive è Drive, un film che pur essendo smaccatamente autoriale riesce ad essere anche estremamente coinvolgente per lo spettatore medio. Ottenere un simile risultato ha un qualcosa di miracoloso e difficilmente può essere ripetuto. Solitamente la bilancia vuole che il piatto penda o da un lato o dall’altro e, spesso, nemmeno l’autore cerca questo fantomatico equilibrio. Può essere, anzi, che un regista voglia realizzare un film che appaghi le sue visioni e le sue idee e che quindi del creare qualcosa di semplice per il pubblico non sia minimamente nelle sue intenzioni. Qualche esempio? David Lynch e  i suoi conigli; oppure un Abel Ferrara. Giusto per rendere l’idea.

Il surrealismo di una storia senza storia

Questa non è una vera recesione di Only God forgives, poichè il film è già uscito qualche mese e di recensioni è pieno il Web. Questo mi fornisce però l’indiscutibile vantaggio di parlare liberamente di quanto vi avviene, senza il timore che vi siano degli spoiler. In ogni caso: se non avete visto il film, smettete di leggere. Ora. Perchè adesso si comincia a parlare e si comincia dalla fine.

L’importanza del finale per comprendere appieno i debiti di questa opera risiedono tutti in quella magica dedica che compare all’inizio dei titoli di coda:

For Alejandro Jodorowsky

Ecco. La differenza tra Drive e Only God forgives è tutta in questa semplicissima scritta. Mentre Drive è una reinterpretazione assolutamente personale di un genere comunque estremamente codificato e di un genere comunque americano quale può essere l’action-thriller, Only God forgives è un film di chiaro stampo surrealista che, pur affondando le proprie radici nel cinema di genere, non tenta minimamente di essere facile o consolatorio o comprensibile per lo spettatore che vi assiste. Drive, tra le sue mille stranezze, fornisce comunque a chi lo guarda una sorta di mappa concettuale. Sappiamo che ad A seguirà B e poi invariabilmente ci sarà C. C’è una storia d’amore e c’è una rapina che finisce male e che porta poi a delle conseguenze che noi come spettatori sappiamo sempre prevedere. Per quanto autoriale, Drive è una sorta di safe-zone. Ma Only God forgives? No, quella non è una safe-zone, nemmeno lontanamente e nemmeno ci avviciniamo alla follia di Bronson. Anche in quel caso abbiamo un genere cinematografico, il biopic, riletto dalla sensibilità di Refn, ma in ogni caso sappiamo riconoscere quanto ci vuole essere mostrato. L’ultimo film di Refn è in tutto e per tutto una seconda parte di Valhalla Rising, l’altro suo indiscutibile capolavoro.

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Only God forgives e Valhalla Rising sono due film surrealisti in tutto e per tutto, che della trama e del genere se ne fanno beffe. Non sappiamo mai se quello che vediamo su schermo stia accadendo realmente o meno, l’unità di tempo è frammentata. Sono film profondamente sperimentali e con una cura maniacale per l’aspetto visivo. In Valhalla Rising abbiamo immagini di una perfezione addirittura pittorica e lo stesso dicasi per l’ultima opera del cineasta danese, in cui tutto concorre nel creare esperienze visive incalzanti ed ossessive. La Bangkok dipinta nel film è una città immersa nei colori primari, artificiale e minacciosa, un luogo vivo pronto a divorarti dopo averti fatto soffrire a lungo.

Sempre la dedica a Jodorowsky serve ad esplicare anche l’ossessione per le mani che è presente in tutto il film e che abbiamo potuto notare anche all’inizio della clip postata. Durante il corso del film vediamo spesso le mani di Gosling inquadrate mentre si contraggono a pugno, ma non solo; Gosling si fa legare le mani da una prostituta mentre questa poi si masturba; le mani sono centrali in quanto usate durante i combattimenti a mani nude e, nel corso del film, veniamo a sapere di come Julian, il personaggio interpretato da Gosling, abbia ucciso a mani nude il proprio padre; le mani infine sono centrali in una delle scene chiave del film, quando Julian, trovando il corpo della madre uccisa, la sventra e ne inserisce una all’interno della pancia squarciata in un momento che non può non riallacciarsi a Jodorowsky in primis, ma a tutto il movimento Panico poi (basti pensare alla scena finale di Viva la muerte di Arrabal con la donna che amoreggia con il corpo di un uomo cucito dentro la carcassa di una vacca, per esempio). Il debito del regista verso quelli che possono essere definiti i Teorici della Provocazione non appare quindi inopportuno.

Tutto il film si perita di presentarci una situazione famigliare disfunzionale con non troppe velate allusioni incestuose ed edipiche. La madre, una fantastica ed odiosa Kristin Scott Thomas, che magnifica le dimensioni del pene del fratello ucciso e con cui il povero Julian non potrà mai competere; il già accennato omicidio del padre da parte di Julian su richiesta della madre e del cui motivo non sapremo mai; la scena finale in cui Julian “penetra” la madre con la mano, mano che poi verrà recisa nell’ultima scena. Il tutto mostrato per narrare una storia di vendetta e di colpe. Togli ad un uomo le sue mani e gli togli la sua forza, la sua capacità di imporsi al mondo è, all’incirca, il concetto espresso dal regista stesso in alcune interviste.

La via della Vendetta e della katana corta

Ma di che razza di film stiamo parlando quindi? Si è detto di non aspettarsi un nuovo Drive, in quanto la delusione sarebbe assicurata. Stiamo parlando di un film di chiara ascendenza surrealista, ma non solo. Perchè al di là di simbolismi e ricercatezze visive, un minimo di trama c’è. Ed è qui che casca metaforicamente il nostro asino, in quanto ci troviamo di fronte al secondo grande equivoco che ha colpito il nostro caro spettatore medio (povero sprovveduto che spilucchi Ciak e FilmTv, non sai a cosa vai incontro): poichè ci si aspettava un nuovo film dell’accoppiata Refn/Gosling, in cui il secondo avesse quantomeno un’importanza paritaria rispetto al primo. Invece puppa! Only God forgives è un film di vendetta, ma un film di vendetta al contrario: il fratello di Julian, Billy, viene ucciso e uno si aspetta che nel corso del film Julian farà di tutto per vendicare il lutto famigliare. In realtà l’uccisione di Billy è già una vendetta, perchè Billy ha stuprato e violentato una ragazzina di sedici anni. Julian sarebbe, in teoria, dalla parte dei cattivi perchè dovrebbe vendicare una morte in realtà meritatissima (nel contesto morale cinematografico, non sto qui a dire che la legge del taglione debba essere applicata, sia chiaro). Dico in teoria, in quanto Julian si rende conto di come il padre della ragazzina avesse tutti i diritti di vendicarsi e decide quindi di abbandonare i suoi propositi di vendetta. Ecco quindi la sorpresa: in tutto il film, Ryan Gosling ha solo diciassette battute e poca o nessuna importanza nell’economia del film, fatta eccezione per una scazzottata, che perde, e la scena finale. Per il resto i reali protagonisti sono due: la madre di Julian, decisa a tutti i costi a vendicare la morte di Billy al di là di tutte le sue colpe, e Chang (interpretato da Vithaya Pansringarm) il poliziotto spietato che sarebbe il lato morale della vicenda e vero deus ex machina del film. Da Chang parte tutto, infatti. È lui a spingere il padre della giovane ragazza uccisa ad ammazzare Billy, per poi mozzargli una mano (sempre le mani), poichè comunque la faceva prostituire. Così quando la madre Crystal scopre il suo coinvolgimento dopo aver ammazzato il reale esecutore di Billy, farà di tutto per far ammazzare anche Chang che però appare come invulnerabile e spietato nel seguire la propria indagine alla ricerca dei mandanti del proprio omicidio.

Oltre a Crystal e a Chang, il terzo protagonista del film di Refn è, come sempre, la violenza. In un mare di calma, di scene senza dialoghi e statiche, esplodono istanti di violenza assoluta, dipinti con vividezza e con una precisione anatomica sconvolgente. Dal corpo tagliato in due dalla katana corta di Chang di uno degli attentatori, alla tremenda scena della tortura in un night club, poco o niente viene lasciato all’immaginazione dello spettatore. Non è una novità questa per Refn: ricordiamo ad esempio il corpo sbudellato, smembrato e triturato per essere fatto sparire nel finale di Pusher III, oppure lo sbudellamento in Valhalla Rising. Eliminare la violenza grafica da un film di Refn è impossibile, in quanto parte integrante della sua cifra stilistica e, comunque, assolutamente necessaria nell’economia dello svolgimento del film stesso.

Un riassunto di tutti i suoi film?

Può essere interessante, infine, notare come nel personaggio di Gosling e di Chang si rispecchino un po’ tutti i protagonisti dei film di Refn. Silenziosi fino quasi al livello del mutismo come in Drive e Valhalla Rising, incapaci di avere rapporti normali con la società e gli altri come gli spacciatori della trilogia di Pusher, in crisi con la propria mascolinità (specificamente nel caso di Julian, castrato psicologicamente dalla madre) come in Bronson.

Conclusioni

Come viene fatto notare ad Hitler nella clip iniziale, anche Taxi Driver venne fischiato a Cannes. Da parte mia non posso fare altro che rimarcare come Nicolas Winding Refn sia uno dei registi più sconvolgenti attualmente in circolazione. Se bisogna trovare un difetto, forse, è il rischio che il suo cinema possa avvitarsi eccessivamente in sè stesso, portando la sua ricercatezza formale ad avere il sopravvento su quanto raccontato, diventando uno sterile e manieristico esercizio di stile (colpa in cui caddero per l’appunto anche Jodorowsky, Arrabal e molti surrealisti in genere). Only God forgives gioca pericolosamente su questo confine, rimanendo in questo caso ancora nel lato buono della barricata. Il rischio di un salto dall’altra parte, e di un salto sanguinoso visto lo stile del danese, è però concreto. Intanto godiamoci questo genio e lasciamo fischiare i francesi quanto vogliono.